Papa FRANCESCO

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raffa:>
view post Posted on 26/7/2013, 17:55     +1   -1




Il Papa elogia i nonni: «Trasmettono
il patrimonio di umanità e fede»

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Il Papa si è affacciato dal balcone centrale del palazzo arcivescovile St. Joaquim di Rio de Janeiro per l'Angelus di mezzogiorno (le 17 in Italia). Francesco ha ricordato che l'Angelus è una "preghiera semplice da recitarsi in tre momenti caratteristici della giornata che segnano il ritmo delle nostre attività quotidiane: al mattino, a mezzogiorno e al tramonto". Un omaggio particolare a Maria (in brasiliano l'Angelus è l'Ora di Maria), che ricorda l’Incarnazione. "Oggi la Chiesa - ha ricordato Papa Bergoglio - celebra i genitori della Vergine Maria, i nonni di Gesù: i santi Gioacchino e Anna, che fanno parte di una lunga catena che ha trasmesso l’amore per Dio, nel calore della famiglia, fino a Maria che ha accolto nel suo grembo il Figlio di Dio". Un richiamo forte al "valore prezioso della famiglia come luogo privilegiato per trasmettere la fede"; poi un pensiero particolare ai nonni, figure importanti "nella vita della famiglia per comunicare quel patrimonio di umanità e di fede che è essenziale per ogni società. Questo dialogo tra le generazioni è un tesoro da conservare e alimentare! In questa Giornata della Gioventù, i giovani vogliono salutare i nonni. Li salutano con tanto affetto e li ringraziano per la testimonianza di saggezza che ci offrono continuamente".

Il Papa e i detenuti
Prima dell'Angelus Papa Francesco ha incontrato cinque ragazzi detenuti, nell'arcivescovado di Buenos Aires. Il Papa riserva grande attenzione al mondo dei detenuti. Padre Federico Lombardi, nella conferenza stampa che tiene quotidianamente a Rio, ha spiegato che il Papa è rimasto in contatto con un gruppo di detenuti argentini ai quali telefona ogni due settimane. "Mentre viaggiavamo in aereo - ha spiegato Lombardi - il Papa mi ha detto che potevo rendere noto il fatto che, ogni due settimane, telefona ad un gruppo di giovani detenuti a Buenos Aires con cui è rimasto amico e in contatto. Quindi, questo tema del rapporto con i giovani detenuti per lui è molto significativo e lo avevamo visto anche in occasione del Giovedì Santo, quando ha voluto andare a Roma a vedere il carcere giovanile, dove ha celebrato la lavanda dei piedi".

La confessione dei giovani
La giornata di oggi è iniziata con la confessione di alcuni giovani nel parco Quinta de Boa Vista. Tra di loro c'era Claudia Giampietro, 27 anni, di Città Sant'Angelo (Pescara). "Una grande emozione. Le parole del Santo Padre con la sua semplicità e schiettezza ci aiutano a interpretare bene in questa Gmg quello che è il disegno di Dio per ciascuno di noi". "Per me è stata una grande emozione, un dono nella mia vita spirituale che arriva al momento giusto. Le parole del Santo Padre con la sua semplicità e schiettezza - ha detto Claudia - ci aiutano a interpretare bene in questa Gmg quello che è il disegno di Dio per ciascuno di noi".
La ragazza ha quindi sottolineato "di aver vissuto il momento come una confessione quotidiana. Il Papa ci ha messo a nostro agio con il suo atteggiamento". "Ero sorprendentemente tranquilla - ha concluso - perché mi sono preparata attraverso il sacramento della confessione". Insieme a lei, alla Fiera confessionaria allestita a Rio, si sono confessati con il Papa altri quattro ragazzi, tre brasiliani e un venezuelano.

Festa indimenticabile a Copacabana
«Che festa indimenticabile di accoglienza a Copacabana! Dio vi benedica tutti! #Rio2013 #JMJ». E' il tweet di Papa Francesco sulla festa di accoglienza della Gmg cui ha partecipato ieri sera sul lungomare di Copacabana, a Rio de Janeiro, davanti a oltre un milione di giovani.

La Messa con i gesuiti di Sumarè
Papa Francesco ha concelebrato questa mattina nella cappella della residenza arcivescovile di Sumarè insieme ai padri gesuiti presenti nella città carioca. Con i suoi confratelli Francesco si incontrerà anche a Roma, al rientro da questo viaggio, il prossimo 31 luglio, festa di Sant'Ignazio di Loyola. "La misura della grandezza di una società è data dal modo in cui essa tratta chi è più bisognoso, chi non ha altro che la sua povertà", ha scritto per ricordare la visita - durante la quale si è commosso fino alle lacrime - alla favela Virghinha.
 
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raffa:>
view post Posted on 11/8/2013, 09:59     +1   -1




«Siamo tutti vasi di argilla, fragili e poveri, ma nei quali c'è il tesoro immenso che portiamo».

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un tweet: «Fragili e poveri, ma con un tesoro immenso»
Il web si emoziona come fosse in piazza San Pietro. Papa Francesco, leader da Vangelo «semplice come una colomba e astuto come un serpente», pubblica su Twitter una poesia, che fa: «Siamo tutti vasi di argilla, fragili e poveri, ma nei quali c'è il tesoro immenso che portiamo».

E in una strofa, il segno di un'altra sua piccola rivoluzione dentro la chiesa, dopo la sua posizione sui gay («Chi sono io per giudicarli?»), la sua messa sulla spiaggia in Brasile, e tutti quegli altri suoi tratti distintivi per cui il mondo lo sta amando e Vanity Fair lo ha eletto «uomo dell'anno».
 
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view post Posted on 11/8/2013, 21:26     +1   -1

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mi commuovo a leggere e rileggere quelle 2 '' righe'' di sentimento e verita'...
 
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raffa:>
view post Posted on 12/8/2013, 06:36     +1   -1




e' vero Franci, :wub: in quelle due righe c'e' tutto il senso della vita
 
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raffa:>
view post Posted on 11/9/2013, 14:16     +1   -1




Papa Francesco scrive a Repubblica:
"Lettera a chi non crede"

Papa Francesco scrive a Repubblica: "Lettera a chi non crede"(ansa) Il Pontefice risponde alle domande su fede e laicità che gli aveva rivolto Eugenio Scalfari in un suo articolo dello scorso 7 agosto ("Le domande di un non credente al papa gesuita chiamato Francesco" - ), e in un precedente articolo del 7 luglio ("Le risposte che i due Papi non danno" - ).

Scrive papa Bergoglio: "E' venuto ormai il tempo di fare un tratto di strada insieme. Dio perdona chi segue la propria coscienza".



Papa Francesco scrive a Repubblica:
"Dialogo aperto con i non credenti"




PREGIATISSIMO Dottor Scalfari, è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.
La ringrazio, innanzi tutto, per l'attenzione con cui ha voluto leggere l'Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell'intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l'ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l'ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce "un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth".
Mi pare dunque sia senz'altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.

Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio. La prima circostanza - come si richiama nelle pagine iniziali dell'Enciclica - deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell'uomo sin dall'inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d'ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d'impronta illuminista, dall'altra, si è giunti all'incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.

La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell'esistenza del credente: ne è invece un'espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un'affermazione a mio avviso molto importante dell'Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell'amore - vi si sottolinea - "risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l'altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall'irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti" (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.

La fede, per me, è nata dall'incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l'accesso all'intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa - mi creda - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell'immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d'argilla della nostra umanità.

Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell'ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme.
Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell'editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso - o se non altro mi è più congeniale - andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall'Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all'esperienza storica di Gesù di Nazareth.

Osservo soltanto, per cominciare, che un'analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell'Enciclica, di fermare l'attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell'Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.

Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo "scandalo" che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria "autorità": una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è "exousia", che alla lettera rimanda a ciò che "proviene dall'essere" che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire - egli stesso lo dice - dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa "autorità" perché egli la spenda a favore degli uomini.

Così Gesù predica "come uno che ha autorità", guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona... cose tutte che, nell'Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: "Chi è costui che...?", e che riguarda l'identità di Gesù, nasce dalla constatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un'autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l'incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine.

Ed è proprio allora - come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco - che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l'uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch'egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l'ha rifiutato, ma per attestare che l'amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.

La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell'amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell'incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva "caro cardo salutis", la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l'incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell'amore e nella fedeltà all'Abbà, testimonia l'incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce. Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell'Enciclica.

Sempre nell'editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l'originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull'incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio.
L'originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell'amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell'unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l'esclusione.

Certo, da ciò consegue anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel "dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare", affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell'Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l'amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all'uomo, a tutto l'uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là.

Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo - mi creda - un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l'aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch'io, nell'amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l'apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all'alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell'alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.

Vengo così alle tre domande che mi pone nell'articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l'atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che - ed è la cosa fondamentale - la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.

In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità "assoluta", nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l'amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant'è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt'altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: "Io sono la via, la verità, la vita"? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt'uno con l'amore, richiede l'umiltà e l'apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all'inizio di questo mio dire.
Nell'ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell'uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell'uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio - questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! - non è un'idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell'uomo. Dio è realtà con la "R" maiuscola. Gesù ce lo rivela - e vive il rapporto con Lui - come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell'uomo sulla terra - e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno - , l'uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l'universo creato con lui. La Scrittura parla di "cieli nuovi e terra nuova" e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà "tutto in tutti". Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all'invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non

ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall'Abbà "a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del Signore" (Lc 4, 18-19).

Con fraterna vicinanza
Francesco
 
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raffa:>
view post Posted on 11/9/2013, 17:24     +1   -1




«Alla Chiesa non servono i conventi vuoti. Fate entrare i rifugiati»

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Francesco visita il Centro Astalli che nel cuore di Roma assiste e nutre coloro che fuggono da guerre e violenze


«I conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati». Lo ha detto alzando gli occhi dal testo scritto Papa Francesco, nel corso della sua visita al Centro Astalli, il luogo nel cuore di Roma che accoglie, nutre e aiuta rifugiati. Qui da oltre trent'anni vengono assistite persone arrivate in Italia che fuggono da guerre, violenze e torture.


Francesco teneva molto a questo appuntamento, che prosegue in qualche modo la sua visita a Lampedusa: com'è nella tradizione più antica del vescovo di Roma, i poveri e i perseguitati sono al centro della sua attenzione. Francesco è arrivato al Centro Astalli alle 15.25, a bordo di una Ford Focus blu, senza scorta e senza segretario al seguito. Il Papa ha salutato già fuori molti di coloro che aspettavano di poter consumare il pasto. Poi è entrato in mensa e si è avvicinato agli ospiti che stavano mangiando e poi si è trattenuto con una ventina di rifugiati. Ha ascoltato le loro terribili storie, particolarmente toccante quella di Carol, siriana. Ha sottolineato alcuni passaggi di ciò che aveva ascoltato, affermando che l'integrazione «è un diritto».


Dopo un breve momento di preghiera nella cappellina del Centro Astalli, e dopo aver salutato tutto il personale - gli è stato offerto anche del mate - il Papa si è spostato nella vicina chiesa del Gesù, dove ha incontrato 250 volontari che prestano servizio in quattro centri di accoglienza gestiti dal Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati.


«Servire, che cosa significa? Servire - ha detto Francesco - significa accogliere la persona che arriva, con attenzione; significa chinarsi su chi ha bisogno e tendergli la mano, senza calcoli, senza timore, con tenerezza e con comprensione, come Gesù si è chinato a lavare i piedi agli apostoli».


«Servire significa lavorare a fianco dei più bisognosi, stabilire con loro innanzitutto relazioni umane, di vicinanza, legami di solidarietà». Solidarietà, ha aggiunto Francesco, «questa parola che fa paura al mondo più sviluppato. Cercano di non dirla. È quasi una parolaccia per loro. Ma è la nostra Parola! Servire significa riconoscere e accogliere le domande di giustizia, di speranza, e cercare insieme delle strade, dei percorsi concreti di liberazione».

« Per tutta la Chiesa - ha detto ancora il Papa - è importante che l’accoglienza del povero e la promozione della giustizia non vengano affidate solo a degli “specialisti”, ma siano un’attenzione di tutta la pastorale, della formazione dei futuri sacerdoti e religiosi, dell’impegno normale di tutte le parrocchie, i movimenti e le aggregazioni ecclesiali».


Francesco ha poi pronunciato parole molto forti invitando le congregazioni religiose e non tenere i conventi vuoti. « In particolare – e questo è importante e lo dico dal cuore – in particolare vorrei invitare - ha detto -anche gli Istituti religiosi a leggere seriamente e con responsabilità questo segno dei tempi. Il Signore chiama a vivere con più coraggio e generosità l’accoglienza nelle comunità, nelle case, nei conventi vuoti…».


«Carissimi religiosi e religiose - ha aggiunto il Papa - i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati. Il Signore chiama a vivere con generosità e coraggio la accoglienza nei conventi vuoti. Certo non è qualcosa di semplice, ci vogliono criterio, responsabilità, ma ci vuole anche coraggio. Facciamo tanto, forse siamo chiamati a fare di più, accogliendo e condividendo con decisione ciò che la Provvidenza ci ha donato per servire»


«Superare la tentazione della mondanità spirituale - ha concluso il Pontefice - per essere vicini alle persone semplici e soprattutto agli ultimi. Abbiamo bisogno di comunità solidali che vivano l’amore in modo concreto! Ogni giorno, qui e in altri centri, tante persone, in prevalenza giovani, si mettono in fila per un pasto caldo. Queste persone ci ricordano sofferenze e drammi dell’umanità. Ma quella fila ci dice anche che fare qualcosa, adesso, tutti, è possibile. Basta bussare alla porta, e provare a dire: “Io ci sono. Come posso dare una mano?”».


Il Papa alla fine ha accompagnato una famiglia di rifugiati a offrire un omaggio floreale sulla tomba di padre Pedro Arrupe, che fu generale dei gesuiti.
 
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