| Rimini, 26 ottobre 2011 – «Mattia non piangere, ti prego non piangere». Quello che impressiona, in Paolo Simoncelli, è la sua forza d’animo. Il suo coraggio. Ha gli occhi lucidi, il papà del campione, che ha accompagnato ieri la salma di Marco da Roma fino a casa a Coriano, dopo aver affrontato il lungo viaggio in aereo di ritorno dalla Malesia. Piange, Paolo, perché «queste sono tragedie» e «non ci sono parole per descriverle».
Piange davanti alle telecamere che lo inquadrano a Fiumicino, lui con le lacrime agli occhi che promette ai tanti giornalisti che l’assediano: «Marco era così disponibile con voi, cercherò di fare altrettanto». Piange quando riabbraccia la moglie Rossella e la figlia Martina. Eppure è lui che sostiene e conforta gli altri, in queste ore così drammatiche. E’ lui che cerca di consolare Mattia Pasini, uno dei primissimi piloti ad arrivare ieri a casa Simoncelli, nel pomeriggio. Paolo lo vede, lo abbraccia, gli fa una carezza... «Mattia, non piangere!». Lo stesso ha fatto con Rossella e Martina: le ha strette a sè, ed è stato come se in quel momento anche Marco fosse, come per magia, lì con loro.
Rossella e Martina sono chiuse in casa dal giorno della tragedia. Come le ha trovate? «Sono a pezzi, naturalmente. Tutti noi stiamo soffrendo tantissimo... Ma in questo momento così difficile, ci siamo accorti di non essere soli. La cosa bella, davvero, è che abbiamo avuto e continuiamo ad avere intorno a noi tantissima gente. E li voglio ringraziare tutti: dalle autorità della Malesia all’ambasciatore italiano, fino ai ragazzi del circuito di Sepang che non ci hanno mai lasciato soli un attimo, e sono stati eccezionali. E anche ieri mattina, a Roma, mi sono commosso. Non mi aspettavo tanta solidarietà. Ieri mattina centinaia di persone si sono alzate all’alba per salutare Marco. C’erano tutti».
Sembra quasi stupito di tanto affetto... «E in effetti lo sono. Non pensavo che Marco fosse amato così tanto dalla gente. In queste ore mi sono accorto di quanto invece le persone gli volevano bene, in ogni parte del mondo. Ho ricevuto tantissimi messaggi, alcuni bellissimi che conservo ancora. E poi le telefonate, i telegrammi... Sono cose che fanno piacere. Il momento duro sarà domani sera, dopo il funerale. Quando resteremo soli, e dovremo fare i conti con questa tragedia».
Marco era un personaggio molto amato anche lontano dalle piste. «Era una persona speciale, e forse la gente ha capito com’era lui per davvero: un onesto, un puro. Gli ho insegnato a essere un guerriero, non so se ho fatto bene o male. Forse è morto proprio per quello».
Si è discusso moltissimo in questi giorni della dinamica dell’incidente. Quando l’ha visto cadere, si è reso conto subito della gravità della situazione? «Purtroppo sì. Ho visto volare il casco e ho subito temuto il peggio. Sono nel mondo delle corse da tanti anni, e ormai capisco immediatamente gli effetti di una caduta».
Ha parlato con Valentino Rossi dell’incidente? «No, non ne abbiamo discusso. E voglio ribadirlo: non è colpa di nessuno, tanto meno di Valentino. E’ stata solo una tragica fatalità. Marco e Valentino si volevano molto bene, non erano solo colleghi. Tra lui e Vale c’era un’amicizia vera, così come con Mattia».
Non pochi consideravano la guida di Simoncelli troppo irruenta... «Ma Marco era fatto così. Ce l’aveva nel sangue l’istinto di correre. Lui correva con tutto: con la bicicletta, con il motorino, con la carriola. Qualcuno (Montezemolo, ndr) l’ha paragonato a Villeneuve, è morto come lui. E io non mi dò pace. Se penso che l’ho portato io per la prima volta sulla pista, che gli ho insegnato io a correre...»
E’ il suo rimpianto più grande? «No, perché Marco voleva correre. Non è colpa di nessuno. E’ inutile parlare. E’ il destino, un destino di m... Molti dicono che Dio si prende i migliori con sé in cielo, se così fosse sarei felice per Marco. Sono convinto che anche lassù, ora, sta correndo!».
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